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Guia Besana: è importante che l’immagine assomigli a ciò che sento

Guia Besana è Canon Ambassador. Il 21 e 22 Aprile 2018, Guia Besana terrà un Workshop a Reggio Emilia presso lo Spazio Fotografia San Zenone, nell’ambito di Fotografia Europea. In collaborazione con Canon.

, i tuoi progetti riguardano in particolare la donna. Come è iniziato questo tuo percorso?

Il mio percorso come fotografa nasce nel 2004 con un mio viaggio in Iran. Lavoravo da anni come assistente per diversi fotografi, viaggiavo molto con loro, non avevo una base fissa. Nel 2004 sono partita per l’Iran per fare un lavoro sulle donne, sono stata attratta da un luogo in cui vi erano contraddizioni forti e molto evidenti senza sapere che tipo di lavoro avrei portato a casa. Qualche tempo dopo sono andata in Sudafrica per un lavoro sull’Aids, un progetto che è nato leggendo un articolo sul New York Times. Volevo raccontare una generazione decimata dalla malattia, così ho immaginato gli ampi spazi vuoti di cui avevo letto, privi di persone e sono partita per cercare quelle immagini. Non era un reportage al femminile ma nato da mie sensazioni leggendo l’articolo.

Era reportage ma era già molto pensato?

Nei miei lavori fotografici ho sempre avuto un approccio personale. Anche quando ho lavorato sui reportage, ho sempre avuto delle immagini in mente prima di partire. Per tornare alle donne, nel 2005 mi sono definitivamente trasferita a Parigi, ho smesso di fare l’assistente ed ho iniziato a lavorare come fotografa. Ho preso tutti gli assignments che mi venivano proposti, e da lì ho iniziato a dividermi tra assegnati e progetti personali. Tutto questo si è rafforzato con la nascita di mia figlia nel 2007, un momento in cui viaggiare é diventato più difficile. Ho iniziato a fotografare in casa, e la cosa più naturale è stato raccontare il mio ruolo di mamma, di donna, di fotografa, con tutte le difficoltà che stavo vivendo. Da lì nascono prima e poi . Stavo parlando delle donne, ma in realtà stavo parlando di me stessa.

Sei riuscita a parlare di te stessa producendo però qualcosa di interesse generale?

Baby Blues e Under Pressure sono arrivati in modo naturale, non ho mai pensato se fossero o meno progetti di interesse generale. Secondo me non è vero che quando inizi un lavoro personale, pensi automaticamente alla sua destinazione, al suo mercato.

Secondo me non è vero che quando inizi un lavoro personale, pensi automaticamente alla sua destinazione, al suo mercato.

Però, ad un certo punto, prendi delle decisioni. Chiudi il progetto, decidi che è terminato, ne apri un altro…

Sì, ma cambia molto da progetto a progetto. Baby Blues è un progetto di ventidue foto intorno ad un unico tema, quindi è stato semplice aprirlo e chiuderlo. In Under Pressure, ogni fotografia ha un tema, poteva essere un progetto infinito, avevo però deciso a priori che quella serie sarebbe stata composta da dieci foto.

Credi quindi che sia possibile sintetizzare una storia in una immagine?

Sì, soprattutto se questa immagine narra una storia più ampia, se guardando la foto riesci ad immaginare qualcosa che può essere successo prima o dopo . È come se tu mostrassi un pezzo di una storia, ognuno può immaginare una cosa diversa. Quando mostro i miei lavori e chiedo alle persone quali foto preferiscono, ognuno risponde con una foto diversa, probabilmente ognuno si identifica in una immagine diversa. Essendo delle mise-en-scène di situazioni universali e reali, ognuno vede in quella foto ciò che appartiene al proprio percorso.

Hai detto poco fa che progetti molto il tuo lavoro. Ma che cosa significa nel concreto?

È difficile da spiegare. Ci sono molti livelli di progettazione. C’è il livello degli oggetti che immagino, il livello della location. La persona quasi sempre viene per ultima, non faccio grandi casting. La luce è importante, ma cambia in ogni situazione. Cerco di non lavorare sempre con le stesse luci o le stesse inquadrature, mi annoierebbe. Per me è importante arrivare ad un’immagine che assomigli a ciò che sento.

Quando mostro i miei lavori e chiedo alle persone quali foto preferiscono, ognuno risponde con una foto diversa, probabilmente ognuno si identifica in una immagine diversa.

Quando fai un ritratto ad un amministratore delegato, o ad un politico, abbandoni la tua ricerca personale e gestisci quel lavoro assegnato con distacco?

No, c’è sempre un intervento da parte mia. L’anno scorso ho fatto un lavoro per una banca francese e, prima di partire per ogni location, cercavo di capire che cosa avrei potuto chiedere di fare al soggetto. Studiavo la persona, in qualche modo preparavo la mise-en-scène. Certo, quando si tratta di un ritratto, tutto è più legato alla gestualità della persona, non è detto che ti lascino scegliere la location ed hai pochi minuti per realizzare la fotografia.

Chi partecipa ai tuoi workshop, da una parte esce dalla realtà, costruisce appunto una mise-en-scène, dall’altra si trova con una persona perfettamente calata nella realtà della fotografia. È questo che si porta a casa l’allievo di un tuo workshop?

Sì, può imparare che è possibile applicare l’immaginario anche in una foto commerciale. È molto importante avere il coraggio di fare qualcosa di diverso, qualcosa che attiri interesse.
Arrivi ad una maturità fotografica quando ti senti libero di poter mettere la tua visione in un lavoro commerciale, o in un lavoro di reportage.

Sei sempre stata consapevole di questo atteggiamento?

All’inizio forse non ne ero consapevole, ma sicuramente ho sempre avuto un approccio più emozionale e meno legato alla tecnica dalla fotografia. Ho iniziato come decoratrice di interni, penso che anche da lì nasca tutto il lavoro sulla costruzione di una scena.

È possibile applicare l’immaginario anche in una foto commerciale. È molto importante avere il coraggio di fare qualcosa di diverso, qualcosa che attiri interesse.

Hai mai temuto l’omologazione?

Sì, certo, quel timore c’è sempre. Siamo talmente nutriti da immagini, dai social, dai magazine, che ad un certo punto devi fare uno sforzo consapevole per non essere influenzato da altri lavori. È importante individuare la cosa che, inconsciamente, fai e che rimane sempre nel tuo lavoro. È questa la traccia che ti distingue, o almeno la più onesta, che assomigli o meno a qualcos’altro.

Ho letto che da piccola scattavi Polaroid, qualcosa di immediato insomma. Adesso il tuo lavoro è più lento?

Sì. Ad un certo punto del mio percorso di assistente ho lavorato con Josef Koudelka, e lui mi diceva questo: “Non so se facendo il fotografo faccio questa vita o se faccio questa vita per fare il fotografo”. Quando si tratta del lavoro personale, è talmente tanto il lavoro che c’è dietro una fotografia che la vita e la fotografia si mescolano e non c’é più un vero confine. Fare il fotografo é un modo di vivere. A volte una serie mise-en-scène puo’ sembrare una cosa così veloce e semplice, in realtà richiede uno sforzo mentale altissimo. Anche l’editing può prendere tempi interminabili. Insomma, l’immediatezza non fa parte di questo mestiere, almeno non per me.

Da piccola registravi anche molte cose. Erano spunti per le idee?

Era una mia mania, non sapevo che cosa farne. La fotografia è un po’ la testimonianza di qualcosa che rimane, così come lo è registrare la voce, avevo bisogno di avere traccia delle cose della famiglia, era un bisogno di unificare i vari aspetti della vita. Vengo da una famiglia con cinque fratelli e sorelle, e io sono sempre stata quella che faceva queste cose. Se a sei anni mi avessero detto che dovevo andare lavorare per non andare a scuola, probabilmente lo avrei fatto. Guardavo l’orologio sperando che arrivasse in fretta la fine della scuola.

Dici che i fotografi non devono andare a scuola?

Ti dico una cosa che non so quanto sia condivisa. A diciassette anni, uno dovrebbe poter prendere la macchina fotografica e andare. Ci sono persone, brave, che non osano telefonare al picture-editor perché non hanno portfolio. Bisogna produrre, più cose hai e più ti senti sicuro nel mostrarle e provarci. Ho sempre pensato che l’esperienza sul campo sia la vera scuola del fotografo. I workshop sono pratici, sono un’altra cosa. Il fotografo-docente riesce ad entrare nella testa di ogni persona e capire come è fatta. Ci sono persone più portate per il reportage, e altre più intimiste, che devono pensare subito alla fine art, pensare alla galleria. È importante che un fotografo abbia persone intorno che gli diano la direzione, altrimenti può perdere moltissimo tempo.

Ho sempre pensato che l’esperienza sul campo sia la vera scuola del fotografo. I workshop sono pratici, sono un’altra cosa. Il fotografo-docente riesce ad entrare nella testa di ogni persona e capire come è fatta.

Tu hai avuto questo tipo di consiglio?

C’è stato un solo fotografo che, ad un certo punto, mi ha detto “devi prendere in mano il banco ottico, tu ragioni da banco ottimo”. Pero’ in quel momento non l’ho ascoltato e sono passati cinque anni prima che mi ritrovassi a fare una serie in banco ottico. Mi é ritornato in mente in quel momento… Vivere di fotografia è difficilissimo, non ci si può permettere di perdere tempo e non individuare il proprio percorso. Tra i diciotto e i venticinque anni, sei più propenso a giustificare diversi modi per sopravvivere, non hai ancora la famiglia, non devi rendere troppo conto delle tue scelte. Penso che quel periodo importantissimo andrebbe sfruttato molto di più per capire dove andare con la fotografia.


Fonte: https://www.maledettifotografi.it/fotografi/feed/


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